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UMBERTO SABA: UN POETA APPARTATO – di ANTONIO CATALFAMO

UMBERTO SABA: UN POETA APPARTATO

 

Umberto Saba nasce a Trieste, nel 1883. Il suo vero cognome è Poli, ma egli assume come pseudonimo quello della madre ebrea («saba» in ebraico vuol dire «pane»), perché il padre aveva ben presto abbandonato la famiglia. Vive, dunque, un’infanzia di stenti ed è costretto ad abbandonare gli studi e a fare il mozzo su una nave. Soldato di leva a Salerno, scrive Versi militari (1908). Dopo il primo conflitto mondiale, col denaro ereditato da una zia, acquista a Trieste una libreria antiquaria, che gli darà da vivere per tutta la vita. Nel ’21 raccoglie tutti i suoi versi nel primo Canzoniere, ma riconoscimenti significativi giungono solo nel ’28, quando la rivista «Solaria», pubblicando un «omaggio a Saba», impone la sua opera all’attenzione nazionale.

Intanto il fascismo, con le leggi razziali del ’38, ufficializza la persecuzione nei confronti degli ebrei. Saba vive giorni d’angoscia ed è costretto a fuggire in Francia e poi a rimanere nascosto a Firenze, con la moglie Lina, ispiratrice di tanti versi del Canzoniere, fino alla Liberazione. Attratto dagli ideali della Resistenza, si fa assertore di una società più giusta e si accosta all’ideologia comunista. Ma rimane deluso e si allontana da ogni impegno politico. Nel ’45 esce una nuova edizione del Canzoniere, accresciuta delle poesie composte fino a quella data. Il nuovo clima letterario, dominato dall’interesse rinnovato per il realismo, fa sì ch’egli ottenga il Premio Viareggio (1946). Nel ’48 esce un’altra edizione del Canzoniere, ampliata con la nuova produzione, e nel ’57 l’edizione definitiva. Saba, nonostante gli autorevoli riconoscimenti, non è un uomo sereno. I traumi dell’infanzia, dovuti all’abbandono da parte del padre, allo sdoppiamento della figura materna nella madre effettiva e in una balia slovena, l’ «eterna Peppa», hanno lasciato il segno. Ricorre alla psicanalisi. Soprattutto dopo la morte della moglie, è costretto a vari ricoveri in clinica. Muore a Gorizia, in una casa di cura, nel 1957. Nel ’61 viene pubblicata una edizione postuma del Canzoniere, nella quale confluiscono le ultime raccolte poetiche.

E’ difficile collocare la poesia di Umberto Saba nell’ambito di «scuole» e correnti letterarie precostituite. Potremmo definirlo un «poeta appartato», poco incline alle mode passeggere, che si sono affermate di volta in volta durante il mezzo secolo della sua attività letteraria. Programmaticamente egli prese le distanze dagli ermetici, dalla loro poesia, a suo avviso «oscura», a causa dell’eccessivo tecnicismo, delle analogie esasperate. Scrisse con la consueta franchezza: «Noi non amiamo l’ermetismo, perché sappiamo che esso nasconde un processo (psicologico) involutivo anziché evolutivo e il mondo ha più bisogno di chiarezza che di oscurità». E’ l’esatto contrario di quello che sostenne, nel ’38, Carlo Bo (1911-2001), in Letteratura come vita, al quale gli ermetici si ispirarono: «La chiarezza non è che un’oscurità travestita, non offre cioè il senso della ricerca, la possibilità di vita».

Saba celebra, con chiarezza lirica, ogni aspetto della vita quotidiana, nella sua realtà più dimessa. Il mondo di tutti, degli uomini comuni, entra nella letteratura del Novecento. Anche i crepuscolari avevano celebrato il quotidiano, ma dietro la rappresentazione delle «piccole cose» c’era la consapevolezza ch’esse fossero di «pessimo gusto», c’era l’ironia sottile di Gozzano, che evidenziava il distacco,  la “presa di distanze”. In Saba abbiamo, invece, un’adesione sincera, spontanea, al piccolo mondo popolare della sua Trieste, vista come una creatura pullulante di vita. C’è una calda simpatia umana per il «caffè di plebe» (il vecchio Caffè Tergeste), ai cui «tavoli bianchi / ripete l’ubbriaco il suo delirio»; per il «vecchietto», che «il pasto senza vino / ha consumato» e che si è chiuso in sé, nello stanzone, caldo, accogliente, di una mensa popolare, «come nascituro / dentro il grembo materno»; per la prostituta e il marinaio di «un’oscura via di città vecchia», anche se sono stati travolti dalla vita e resi abbietti: «Qui degli umili sento in compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via». La sua storia privata s’intreccia e s’identifica con quella del popolo: «il popolo in cui muoio, onde son nato». Egli stesso, in uno scritto del 1911, che contiene un’importante dichiarazione di poetica, domandandosi «quel che resta da fare ai poeti», risponde: «la poesia onesta», che esprime i sentimenti puri del popolo, in contrapposizione alla “disonestà” di un D’Annunzio, che, con la sua retorica, è un “arruffapopolo”.

Saba non ha certo una visione idillica del mondo, ma, anche quando è presente nei suoi versi la malinconia, questa non intacca l’accettazione totale della vita. Rimane sempre l’amore per l’esistenza, anche se è un amore doloroso. Ciò distingue il poeta triestino dalla produzione esistenzialista sua contemporanea. Anch’egli ha avuto «due buoni maestri»: Nietzsche e Freud, ma li ha letti in una chiave completamente diversa. Riguardo a Nietzsche, non si è esaltato di fronte al «superomismo», come D’Annunzio, ha apprezzato, invece, il filosofo pensoso e riflessivo intorno alla condizione umana. Dal niccismo ha desunto una «vitalità cordiale» (Antonio Piromalli), il desiderio di essere uomo tra gli uomini, «di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni».

Pure la psicanalisi viene adoperata da Saba come strumento di chiarificazione della realtà, che consente di penetrare nelle regioni più oscure della psiche umana per sciogliere i “nodi” che si sono creati. Lo scrittore triestino ha avuto come supremo ideale la “chiarezza psicologica”. Ha fatto proprio l’aforisma nicciano: «Siamo profondi, ridiventiamo chiari». Il metodo psicanalitico accentua la sua «implacabilità nella dirittura», cioè la sua ricerca spietata della verità. Gli serve per «rimuovere, o cercar di rimuovere, il velo d’amnesia che copre gli avvenimenti della primissima infanzia, e trovare in essi le ragioni dei conflitti che lacerano la vita dell’adulto». A differenza di Pascoli, Saba regredisce al mondo del fanciullo, guardandolo non con «occhi puri», ma con l’esperienza dell’adulto.

Saba è stato anche abile prosatore. Vanno apprezzati soprattutto il volume Scorciatoie e raccontini (1946), un insieme di brevi racconti, pensieri, aforismi, e Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), un saggio in cui lo scrittore getta luce sul proprio lavoro. Risulta, invece, appesantito da psicologismo Ernesto, romanzo incompiuto, scritto nel ’53 e pubblicato postumo nel ’75. Si tratta di una specie di Bildungsroman (romanzo di formazione), in cui viene descritto, appunto, il processo formativo di un ragazzo, con particolare riferimento alla sua iniziazione all’amore, attraverso un’avventura omosessuale prima e l’incontro con una prostituta poi.

Le pagine più limpide e più veritiere su Umberto Saba sono state scritte, a nostro avviso, non dai critici professionali, ma da uno scrittore e pittore suo amico: Carlo Levi. Egli lo ha definito giustamente «il più grande poeta dell’Italia moderna, uno dei grandi, dei rarissimi grandi, che il popolo d’Italia comprende in sé nella storia secolare della sua cultura e della sua poesia». Lo scrittore torinese fissa alcuni paletti fondamentali per capire l’opera di Saba.

Innanzitutto, il suo isolamento, che è l’isolamento di Trieste. Un isolamento culturale rispetto al resto del Paese che è davvero salutare, perché lo libera dalle influenze nefaste della cultura e della tradizione letteraria italiana, che sfocia nel fascismo. Saba riconosce che le sue contraddizioni interiori sono anche quelle della sua città, terra di confine, crogiuolo di razze e di culture, che hanno convissuto a lungo in un equilibrio sottile. Una multietnicità che vive anche dentro di lui. Difatti scrive: «Anch’io ero preconizzato, oltre che futuro impiegato di Banca, futuro “luminare del Giudaismo”. Se non ci sono ‒   ahimè ‒   riuscito, è stato […] per colpa di quel goi [termine ebraico per indicare chi non appartiene al proprio popolo, nda] di quello scapestrato di mio padre. Più forse ancora (data l’assenza del padre) della mia balia (una contadina slovena) che teneva a capo il letto un’immagine di Gesù bambino (alla quale volentieri m’identificavo) e mi conduceva con sé ogni sera alla chiesa del Rosario, che ancora esiste in quella parte della Città Vecchia che non è stata inutilmente (bestialmente) abbattuta. Mi faceva anche, prima che mi addormentassi, recitare, invece dello Scèmagn Israèl in ebraico, il Padre nostro in sloveno… Se, a costo di ripetermi, racconto queste cose di antichi tempi, non è […] per “parlare di me”, ma solo per lamentare quali orribili mescolanze erano possibili in Europa; e a Trieste, quando la mia ‒  malgrado tutto, oggi come ieri, ieri come oggi italianissima ‒  cittadina, era in fase ascensionale. Poi doveva venire Adolf Hitler a “mettere ordine”».

L’isolamento di Trieste è servito a Saba per acquisire una dimensione culturale europea, evitando, a differenza di tanti altri intellettuali italiani, di infangarsi con il fascismo e il suo nazionalismo retorico e gravido di odio e di violenza, che si sono abbattuti, ad un certo punto su Trieste, rompendo quell’equilibrio sottile che esisteva da secoli tra uomini di razze, culture e religioni diverse. La religiosità di Saba è quella popolare. E’ sempre Carlo Levi a mettere in risalto come Saba non si riconosca in nessuna religione positiva e l’ebraismo operi in lui in maniera originale come «assolutizzazione» della vita semplice del popolo. Leggiamo nelle belle pagine dedicate dallo scrittore e pittore piemontese al suo caro amico: «Dal punto di vista biografico, Saba, per quanto nato in una famiglia ebraica illustre, non era né ebreo praticante, né volle mai riconoscere una distinzione tra il movente ebraico e il movente non ebraico della cultura. Ma si può sostenere che un filo, una tradizione ebraica sia realmente presente negli scritti di Saba, perché il carattere di Saba era profondamente ebraico, per quella sua capacità di universalizzare la vita di ogni giorno, le figure esistenti, e dare questo carattere assoluto (quello che egli dice “figure bibliche”) alla vita “di tutti gli uomini di tutti i giorni”, agli avvenimenti più comuni, a quelli che stanno nella casa in cui il padre e il figlio sono veramente personaggi».

Carlo Levi conclude, dunque, che la poesia di Saba è insieme classica e «popolare», nel senso che parla dell’uomo comune, umile, di quello che vive la vita di tutti i giorni semplicemente, e in questa semplicità sta la sua “religiosità” e poeticità. Scrive, infatti, Levi a proposito dell’opera poetica del Nostro: «La sola forse poesia classica che abbiamo avuto da tanto tempo e insieme poesia popolare perché risponde veramente a quelli che sono i motivi fondamentali dell’anima del popolo. Tanto che per quanto in questa poesia non ci siano né motivi politici, né motivi esplicitamente sociali, né motivi contenutisticamente legati a dei problemi che stanno a cuore alla maggioranza delle persone; proprio in questa poesia si possono trovare i bisogni fondamentali del popolo».    

Per dar voce al piccolo mondo quotidiano sono inidonee le parole altisonanti di D’Annunzio o quelle allusive dei simbolisti e dei loro imitatori italiani, decadenti ed ermetici. Perciò Saba usa parole semplici, quelle che Giacomo Debenedetti, il critico che assieme ai «solariani» lo rivalutò, ha definito «parole senza storia», in quanto sottratte all’uso comune: «Qui si sa sempre come la cosa abbia suggerito il proprio termine: sono escluse le mediazioni della cultura: le quali, stabilendo tra parole e cose passaggi taciuti, fanno gravare sulle parole occulte forze e creano, dietro di esse, paesaggi segreti e sfondi mormoranti. In Saba invece la parola è quella domestica, la prima venuta: parole senza storia». La parola viene scelta dal poeta non per la sua capacità evocativa di un mondo di simboli, ma per la sua «pregnanza semantica», cioè per la sua concretezza, per la sua capacità di rappresentazione oggettiva della realtà, perché legata strettamente, senza mediazioni, alla cosa da descrivere, come polpa al nocciolo. Perciò le parole di Saba hanno un sapore antico, che rinvia alla tradizione metrica e letteraria.

Antonio Catalfamo

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