lunedì, Settembre 16, 2024
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PALINGENESI D’AMORE – Racconto di Maria Teresa Liuzzo

Palingenesi d’amore – Racconto di Maria Teresa Liuzzo

Compiuti i vent’anni, Mary si trasferì in città. Aveva ancora negli occhi e nel cuore i prati e le colline che circondavano il paese e si vedeva ancora bambina, quando per gioco rincorreva gli animali nell’aia, correva per i sentieri e cercava nidi tra le siepi.

E, poi, le notti d’estate a guardare le stelle e a inseguire la luna, nel suo misterioso corso! Qualche volta, al tramonto, dal suo balcone, fissando lo sguardo sulla pianura, che conduceva al mare, andava con il cuore oltre l’orizzonte e pensava a qualche cosa di meraviglioso e di misterioso. Chissà quando avrebbe potuto attraversarlo quel mare o allontanarsene per altre rive, in altri luoghi?! Ed ora, a vent’anni, se ne era allontanata, aveva lasciato il paese ed era in una città.  Ciò che la colpì e che certo non la gratificò, furono i grandi palazzi che soffocavano le strade e gli spazi, l’asfalto, le barriere di cemento, il traffico caotico, i rumori assordanti degli automezzi, l’acre sentore di gas e di nafta, la gente, o frettolosa o flemmatica, che affollava i marciapiedi e le vetrine. Ecco … le vetrine la attraevano e la stupivano: abiti eleganti e raffinati, che mai avrebbe immaginato e che s’illudeva, con un gioco piacevole di fantasia, di potere indossare.

Volgeva, poi, gli occhi intorno: tutto era così diverso dal suo paese. Dov’erano i giardini, dove il profumo di zagara e di gelsomino, che aveva lasciato, dove il cielo limpido e azzurro, dove i rossi tramonti … e i sogni? E la villa, tra gli olivi e gli oleandri, che l’aveva vista nascere e crescere e che aveva raccolto le sue lacrime, ma anche le sue gioie e le indicibili fantasticherie? Ora, tutto era diverso, tutto era cambiato: questo le suggeriva la città; lei stessa era cambiata o le sembrava, se è possibile che ci si trasformi da un giorno all’altro, come se l’uomo possa essere trasformato in altro, come una quantità di creta, che le mani possono modellare in forme diverse, prima che solidifichi. Non avrebbe voluto essere diversa, ma che fosse sradicata dalla sua mente e dalla coscienza quella sensazione di essere orfana, non tanto come creatura privata degli affetti, ma della stessa vita o di ciò che più conta per l’equilibrio dell’Essere. Allontanare da sé l’orfanità … conquistare la fiducia e la speranza. La speranza che non muore con la notte e non tramonta con le stelle, che si scioglie nel sangue, diventa luce degli occhi e alimenta la pianta della condivisione e della tolleranza. Il male, però, predispone le sue trame, ordisce inganni e tenta di annullarti, divorandoti, dopo di averti immobilizzato. Mary cercava di rimuovere le vicende dolorose dell’infanzia e riandava con la mente ai lunghi anni di studio, fra privazioni e ostacoli frapposti dai genitori che mal sopportavano che ella potesse rendersi autonoma, attraverso gli studi, e un giorno non lontano andare via dal paese e formarsi una famiglia tutta sua, con marito e figli.

Avevano certamente progettato di tenerla ancorata al loro ambito familiare, per farsi servire e crescere i numerosi fratelli, tutti nati dopo di lei e bisognevoli di ogni cura, come se fossero figli suoi. Sia pure fra stenti, Mary completò brillantemente gli studi e dopo qualche tempo cominciò a lavorare, un po’ insegnando, un po’ lavorando negli uffici, ma una volta sposata, lasciò tutto preferendo il mestiere di mamma.

Per alcuni anni, dopo il matrimonio, Mary visse in una condizione, se non di felicità, almeno di relativa serenità, e con la speranza di avere cancellato il passato o ciò che del passato era un doloroso ricordo. La nuova famiglia, i nuovi affetti, la nascita del primo figlio … La vita sembrava sorriderle …

Sembrava, perché nessuno può dominare gli eventi e sventare le trame delle menti perverse, le insidie del tradimento, la ragnatela del male e, così, improvvisamente, il castello che si era costruito si rivelò una fragile illusione e crollò miseramente. Il padre di suo figlio si era rivelato un essere infido e ingannatore e per di più interessato e avido di denaro, per ottenere il quale avrebbe fatto le azioni più ignobili, al di là di ogni immaginazione, calpestando gli affetti più sacri da quelli di sposo a quelli di padre. E, allora, la grande tragedia, di sentirsi come una cosa priva di valore, inerte e senza anima, senza nessuno a cui rivolgersi: non la casa paterna, che evocava incubi e insidie vergognose, non la propria che era distrutta. A chi rivolgersi, dunque, su chi poter contare? Solo la preghiera e la fede rimanevano e le tenevano compagnia nelle interminabili notti, abbracciata alla sua tenera creatura, su cui ricadevano le calde copiose lacrime, le invocazioni alla Madonna, come pietosissima e soccorritrice Madre. Sfinita, poi, si addormentava e l’alba, sia pure in una condizione di incertezza e di dolore, le riservava un raggio di sole, un filo di speranza.  La speranza che l’uomo da sé deve alimentare, raccogliendo ogni risorsa, ponendosi contro gli eventi avversi, cercando di costruire, di operare, senza lasciarsi abbattere dalla sfiducia e convincendosi che da ogni situazione si può uscire vittoriosi. Mary riprese il lavoro, anche perché le ripugnava dipendere dagli altri e assicurò a se stessa e al figlioletto una condizione di relativa tranquillità. In seguito si rifece una famiglia. Non le era stato difficile, poiché la natura l’aveva fornita di bellezza, di garbo e di delicatezza, di pazienza e di dolcezza, di femminilità ed era, perciò, corteggiata da uno stuolo di ammiratori e lasciava cuori infranti dovunque si recasse: chiunque la conoscesse non poteva evitare di apprezzare le sue doti e la sua intelligenza, la sua amabilità. Non tutto, però, la gratificava; non tutto, per quanto non se ne lamentasse, cancellava il vuoto interiore, la carenza affettiva, il desiderio di un amore forte, vero, che le conquistasse l’anima, le penetrasse nelle vene e fosse il vero motore della sua vita. In un certo senso, Mary, se lo era costruito un ideale, che era però una misteriosa creatura, impalpabile e forse soltanto spirituale, che sentiva in sé, anche se era certa che venisse e operasse da fuori di sé: una sorta di Dàimon, dal quale si sentiva posseduta, che governava le sue azioni, ordinava le sue idee, le faceva formulare i pensieri, la rendeva malinconica e felice, a un tempo. Una misteriosa creatura che le teneva compagnia e la confortava e le dava coraggio nei momenti di sconforto, che erano frequenti, anche dopo la nuova sistemazione familiare, anche dopo la nascita del secondo figlio, che per alcun tempo le aveva dato nuovi interessi e nuovi stimoli per vivere, ma che era stata anche motivo per nuovi dissapori e inculcato nel suo animo la certezza dell’indifferenza e del malanimo, anche di coloro che avrebbero dovuto esserle più vicini.   Ora, a distanza di qualche anno, si rendeva conto del loro operato e ricordava, spesso angosciosamente, le lunghe ore trascorse in uno stato di semi-incoscienza e quasi costantemente pervasa da una specie di sopore, che la rendeva quasi incapace di operare e, comunque, di reagire, a qualsiasi forma di pressione e di violenza. Non aveva coscienza allora di ciò che le accadeva: se la sua condizione fosse dovuta a qualche strana patologia o se derivasse da farmaci che le venivano somministrati a sua insaputa, per ridurla sotto il potere della volontà dei cari congiunti. In seguito si rese conto che la seconda ipotesi era quella reale: riuscì con molta fatica a liberarsi dei nemici interni, ad appropriarsi della propria volontà, anche se la serenità non fu assicurata in maniera soddisfacente e rimasero a turbarla ricordi, o chiari o confusi, delle giornate da incubo trascorse e il rifiuto di introdursi in luoghi o stanze, senza rimanerne fortemente turbata.

Poi, dapprima come un vento lieve che si percepisce appena o come una voce che perviene chissà da quale luogo, in forma di bisbiglio o di sussurro, che si trasformarono presto in venti impetuosi e in gridi, si sentì pervasa dalla poesia. Questa era la voce dell’infanzia, della spensieratezza e dell’innocenza smarrita e solo in parte ritrovata: era i luoghi aperti e liberi, il sole, la natura, le voci dei boschi e il silenzio delle campagne; le notti di afa quando giovinetta, il sangue reclamava i suoi diritti e l’amore s’insinuava, con i suoi richiami nel cuore e nella mente; il fantasticare notturno o ad occhi aperti, nelle giornate d’estate e di primavera; il tepore del letto e il tetto accogliente, nei lunghi inverni e la meditazione che aveva maturato il suo pensiero. Ma era anche la sofferenza e i disagi, il lavoro precario e poco soddisfacente, le difficoltà della famiglia, i litigi e i dissapori, le violenze fisiche e morali subite; era il bisogno di libertà e di autonomia; era, soprattutto, un matrimonio, imposto e senza amore. Ma c’era una voce, e un senso, in questo vento di poesia, che era anche liberatorio e rendeva meno dolorosi i ricordi degli eventi contrari e accompagnava gli altri, con una sorta di malinconica, dolce nostalgia. E, poi, come si è detto, il Dàimon … La poesia, le voci, i segni, la scrittura venivano da lei e dentro di lei: ma chi li dettava? C’era un corpo dietro le voci e i segni, gli impulsi, le visioni, i messaggi: Mary avvertiva quasi la presenza fisica di quest’essere e quando trascriveva sul foglio i propri versi le sembrava che una invisibile mano accompagnasse la sua e una misteriosa mente condividesse le emozioni che la parola suscitava in lei. Malgrado tutti gli ostacoli da superare, rubando il tempo al riposo e ad ogni altra possibilità di svago, ogni sua risorsa era impegnata per la poesia, sicché le pagine si aggiungevano alle pagine e i libri seguivano ai libri … In essi c’era la sua vita passata e la presente, ma anche la futura, in una fuga nel tempo e nello spazio, che però non era assenza dalla realtà, ma una maniera di fissare  indelebilmente la propria vita e quella in generale, fatta di azioni, di eventi, di storia, di cronaca, di uomini e popoli, che ella recuperava dai luoghi e dalle terre più lontane, permeando il suo discorso di umanità, di condivisione del dolore e delle gioie, di esaltazione dei valori universali, di tensione verso il divino e il trascendente. Ma, poi, si sa, la vita è anche altro … è insidia, trame che tendono a distruggerti, che attentano alla tua onorabilità, che cercano di coprire di fango e rendere limacciose le acque limpide della tua anima e della tua mente. E, allora, sei costretta a difenderti … ma chi può soccorrerti? Inconsciamente pensi al Dàimon …

Qualcuno, forse, ti aveva parlato di Raf, un avvocato che aveva fama di grande intelligenza e sapienza professionale, oltre che (lo avresti accertato) di altrettanta umanità. Fu questa sua dote, più che la sua intelligenza, più che la sua eloquenza e la brillantezza dell’espressione, a colpirti e a darti la sensazione di averlo conosciuto da sempre: Raf, il grande avvocato, non era un essere sconosciuto per te: era egli il Dàimon che ti aveva accompagnato per anni, la creatura fantastica che oggi aveva un corpo, un volto, un nome. Dal primo momento, le sembrò di averlo amato da sempre e, sarebbe stato senz’altro un pensiero folle, se l’amore non fosse insondabile e spesso non travalicasse i limiti del razionale. Si sentiva attratta irresistibilmente e, ascoltandolo e osservandolo, un turbamento imbarazzante, ma anche piacevole, la pervadeva: quando le porse la mano per accomiatarsi, avvertì come un messaggio nella stretta di Raf, ma subito distolse da sé questo pensiero, sciocco e insensato a un tempo.

Il motivo che l’aveva indotta a rivolgersi a Raf era molto serio, una situazione nella quale era stata coinvolta suo malgrado, e senza averne alcuna responsabilità, ma che rischiava di sconvolgere la sua vita e stessa famiglia.

Per un certo periodo si incontrarono nello studio del professionista, sia perché Raf aveva necessità di conoscere vari particolari della vicenda, sia perché si era insinuato in lui un pensiero dolce e tormentoso a un tempo, oscuramente dapprima e poi, sempre più chiaramente: si era innamorato di Mary, ma ignorava che la stessa cosa era accaduta a lei. Qualunque cosa facesse e dovunque si trovasse, l’immagine della donna lo seguiva, ne sentiva la voce, il respiro, l’avvertiva accanto a sé: in ogni volto e in ogni corpo; in tutte le persone che incontrava o che gli erano vicino, ella vi si frapponeva. Si svegliava improvvisamente durante la notte e, follemente, sperava che fosse coricata accanto a lui; talvolta, mentre nell’aula del tribunale arringava, volgendosi verso il giudice, la vedeva sulla cattedra. Ella, dunque, era il giudice della sua condizione, dei suoi sentimenti, del suo innamoramento, che pervadeva tutto il suo essere ed egli era come in attesa della sentenza. Poi si riprendeva e ritornava in sé, riprendeva il filo del discorso … Cosa, dunque, gli stava accadendo? Ignorava che Mary viveva la sua stessa condizione, solo che ella, le sue fantasticherie, le sue illusioni, le sue visioni, le trascriveva sul foglio, ne faceva poesia.

La poesia, già, era il dono supremo che le aveva permesso di continuare a vivere ed ora, che aveva identificato e personificato il suo Dàimon, non voleva perderlo, non voleva che si dissolvesse come tutti i sogni della sua vita, che l’avevano lasciata sola e indifesa, in balìa della cattiveria altrui.

Entrambi cercavano in ogni maniera di mettersi in comunicazione: anche la più banale delle scuse era ritenuta importante perché potessero incontrarsi. Raf prese l’abitudine di telefonarle in qualsiasi momento della giornata e, quando il tempo a disposizione glielo permetteva, si dilungava in lunghe conversazioni. Le chiedeva particolari della sua vita passata, della sua infanzia, delle sue vicende più vicine nel tempo: gli sembrava, così, di entrare nella sua vita, come se vi fosse stato da sempre, come se non vi fosse un tempo nel quale essi fossero stati separati. Un giorno, quando poterono amarsi, egli proruppe in questa frase: “Noi siamo insieme da sempre, il nostro amore ci conteneva dall’inizio del tempo e noi, senza saperlo, ci siamo amati, ma non ne avevamo coscienza, perché c’erano cortine impenetrabili fra di noi, che avevano innalzato coloro che influenzavano la nostra volontà e annegavano i nostri sogni; ma, ora, nulla ci può ostacolare, nulla può cancellare il nostro amore …”.

Mary lo ascoltò stupita, poiché lo stesso pensiero le aveva attraversato la mente. Abbracciò Raf teneramente, ma con tanta forza, quasi per rendersi conto che quell’essere meraviglioso era suo, che quel corpo fosse reale. In seguito si abbandonarono completamente al loro amore; si incontrarono ad ogni ora e in qualsiasi luogo: era come se il mondo esistesse solo per loro e niente e nessuno esistesse al di fuori di essi. Per la prima volta nella loro vita seppero cosa fosse il vero amore, quello che unisce i cuori e le menti, che parla con una sola bocca, accomuna i pensieri, pulsa con un solo cuore: l’amore che fa uguali coloro che si amano e fonde i loro esseri in uno solo. Erano come dei ragazzi incoscienti ai quali tutto era permesso e che pensavano soltanto di soddisfare i loro desideri, di assecondare la natura che agitava il loro sangue e ne scatenava i sensi, ma in una maniera strana e tale da esaltare la loro innata intensa spiritualità. Poi, tutto intorno era un ravvivarsi di colori, un’espansione di suoni, uno spirare di venti che avevano in sé messaggi nascosti di tempi lontani e di vite trascorse, che ora riemergevano per dare concretezza a ciò che è eterno, espresso nel canto dell’anima.

Mary pensava spesso al loro primo incontro d’amore.

Quell’anno, l’estate era stata particolarmente calda, quasi torrida, e luglio ne era stato il picco. Mary si era dovuta recare nella tarda mattinata presso lo studio di Raf che si trovava al sesto piano di un moderno edificio, per fargli avere alcuni documenti, molto importanti per la causa in corso. Appena uscita dall’ascensore, vide che Raf l’attendeva sull’uscio dell’appartamento, in jeans e maglietta: appoggiato allo stipite e con la sigaretta in bocca, la osservava con uno sguardo intenso e denso di significati. Prima di farla entrare nell’appartamento, allargò le braccia e, stringendola a sé, con sorpresa di Mary, ma con naturalezza, come se fra di loro ogni cosa si fosse chiarita, nel senso che il loro amore fosse palese e reciprocamente accettato, le disse: “Ecco, la mia poetessa, ecco il mio solo unico amore, ecco il senso vero della mia vita …”. E, così dicendo, prima le sfiorò il viso con un delicato bacio, poi la baciò sulle labbra, appassionatamente, ma con delicatezza, per non sciupare i petali di quella stupenda, profumata, rosa. Fra le sue braccia Mary si sentì come uno scricciolo, protetta e sicura, poi avvertì il richiamo dei sensi: entrambi dimenticarono lo scopo della visita e sul divano di fronte alla scrivania di Raf, realizzarono il loro meraviglioso sogno d’amore.

Sembrava che le loro energie si fossero moltiplicate a dismisura, mentre il desiderio piuttosto che placarsi era sempre più alimentato dal contatto dei loro corpi e, stranamente, dal sudore, che scorreva sulla loro pelle, soprattutto sugli occhi e sul viso e dava un sapore di sale alle labbra.

Dopo alcune ore, stremati, ma felici, si abbandonarono a un dolce riposo e si assopirono, incuranti del tempo che trascorreva, tenendosi stretti per mano.

Mary ricordava spesso questa giornata che aveva sancito il loro amore … Ma, si sa, sembra che la vita si voglia vendicare delle gioie degli uomini e sovente ascrive a colpa di essi i momenti di gioia: sembrava che per Mary fosse giunto il momento di renderne conto. 

Da qualche tempo ella avvertiva uno strano fastidio: dapprima non se ne allarmò, pensando a un dolore muscolare ma, poi, persistendo il dolore, decise di verificarne la causa.

L’esito fu il deflagrare di una tragedia: improvvisamente si sentì cadere il mondo addosso; tutto ciò che costituiva la sua vita stava per crollare e, soprattutto, rappresentava la fine di un amore che era stato il segreto della sua rinascita, fisica e spirituale.

Una bestia maligna e subdola si era insinuata nel suo corpo e la stava divorando, un tumore che si era formato nella sua carne e aveva stabilito il tempo, ancora breve della sua vita. Il suo pensiero era tutto per Raf: come dirglielo, come rivelare questa terribile verità?

Sarebbe stato meglio tacere, custodire fino a che fosse stato possibile questo segreto, scomparire dalla sua vita, rischiando anche di farsi giudicare male, di farsi odiare, ma evitando così, di farlo ulteriormente legare a lei, in maniera che, perdendola, non soffrisse molto o rivelargli tutto e affrontare insieme, vivendo ancora insieme, la vita che le rimaneva ancora?

Mary cercava di prendere una decisione anche se nel frattempo nulla aveva fatto trapelare e le cose tra lei e Raf non avevano subito modificazioni ed ella si sforzava di essere quello che sempre era stata per lui.

Riandava continuamente col pensiero al giorno nel quale lo aveva visto per la prima volta, agli occhi di quell’uomo che aveva cambiato la sua vita, che gli aveva aperto nuovi orizzonti, che le aveva fatto dimenticare la sua vita passata, liberandole l’anima e la mente di ogni fattore depressivo e che le aveva ridonato il sorriso, non quello artificiale, che è come una maschera sul viso, che nasconde pene interiori, ma il sorriso nel cuore e nei pensieri, nella fantasia che esalta e cerca di fissare in una sfera di eternità la felicità del vissuto.

E, poi, quel suo parlare deciso, quella sicurezza, che nasce dalla forza caratteriale e dall’equilibrio, dal senso supremo della giustizia, dalla ricerca costante della verità, senza alcun timore di esserne sopraffatto, frammisto all’umanità, che non consente l’umiliazione degli altri nella vittoria, anche quando l’azione altrui ne potrebbe apparire degna.

Aveva ammirato ancor di più la sua capacità di scavare nella sua anima, di far uscire dal buio i segreti più nascosti, non per morbosa vanità, ma per condividere con lei il peso del dolore e delle preoccupazioni attuali. La sua delicatezza e discrezione nell’osservarla, nel misurare le parole, perché, anche involontariamente, non la ferissero, avevano costituito un motivo in più perché ella si legasse a Raf.

Man mano che Mary si sottoponeva a nuovi esami e ciò che temeva cominciava a prendere forma, sentiva crescere dentro di sé una volontà frenetica di fare, di operare, in maniera tale che qualcosa di memorabile rimanesse di sé, non soltanto nei rapporti con Raf, non soltanto con l’intensità dell’amore che gli offriva, ma soprattutto con un progetto, doloroso e grandioso a un tempo, di affidare alla poesia la storia del loro amore, così che nulla potesse cancellarlo e conquistasse lo stigma dell’eternità. Con Raf si proiettava nel futuro, faceva progetti, come se la sua vita dovesse durare ancora per tanti anni e, immergendosi in quelli che per lei erano sogni, ma che per Raf erano un concreto progetto per il futuro, dimenticava il suo dramma.

Quando era possibile, nelle belle giornate, tiepide e chiare della nostra terra, si recavano sulla spiaggia: non vi era nulla di più gradevole che osservare il mare, che ascoltare il mormorio delle onde, che vedere i voli degli uccelli marini e le loro picchiate a pelo d’acqua, prima di risalire improvvisamente, verso il cielo; che ascoltare il grido, che è canto e pianto, a un tempo, che lascia nell’aria come una scia sonora. Ecco, quel grido era forse quello della sua anima e quella scia era quella del suo cuore, che indicava una strada verso il cielo, ma così incerta …

Anche questi momenti aveva fissato nei versi, li aveva fatti parola e suono, immagini e pensiero, fantasia riflessiva ma, sebbene ciò che l’occhio osserva e l’orecchio ascolta sia chiaro, non riusciva a cogliere le ombre che la luce nasconde e, nel mormorio delle onde o nella voce degli uccelli, molto le sfuggiva, ma non per disperdersi, sì per fissare il necessario segreto che rende eterna la poesia, perché contiene i valori profondi dell’essere.

Il poemetto si arricchiva di nuove pagine, man mano che trascorrevano i giorni, ma Mary sentiva che le forze venivano meno; anche la capacità di concentrarsi, di formulare pensieri si affievoliva ma, miracolosamente, recuperava ogni energia quando si concedeva alla scrittura, quando il pensiero di Raf e del loro amore occupava la sua mente.

Non avrebbe potuto però lottare a lungo e, quando si accorse che la fine, sebbene non imminente, era vicina, disse a Raf che avrebbe voluto trascorrere con lui un’intera giornata, anzi una fine settimana.

Raf aveva un’accogliente villa a pochi chilometri di distanza dalla città, vicina al mare, in una rada amena e riparata dai venti: lì trascorsero i due giorni più felici e appaganti della loro vita; lì il loro amore raggiunse le vette della sua espressione; lì seppero di essere veramente una sola creatura. Il giorno dopo Mary si allontanò dalla città e si fece ospitare da una sua cara parente in un vicino paese di collina e, preparandosi a morire, completò il manoscritto del poemetto, che mise in una busta con un lunga lettera, che aveva scritto per Raf, che consegnò a Paola, la sua cara parente, pregandola di consegnarla a lui, dopo la sua morte.

 

°°°

Raf quella domenica si era alzato di buon’ora. Uscendo, si era fermato al bar all’angolo di casa sua per un buon caffè; aveva scambiato qualche frase con il barista e con alcuni conoscenti, poi aveva salutato e si era diretto con la sua auto verso la collina, sulla quale sorgeva il cimitero. Giuntovi, aveva acquistato undici rose rosse e altrettanti garofani da porre sulla tomba di Mary, posta in terza fila, in un lotto a cinque piani. Salito sulla scaletta e sistemati i fiori, era rimasto per alcuni minuti in silenziosa preghiera, fissando il bel viso di Mary, immobile nel ritratto funerario.

Mary era sorridente e sembrava che quel sorriso fosse rivolto lui, che fosse di una persona ancora viva, con un atteggiamento come di chi volesse parlare. Raf deterse la superficie del ritratto con un fazzoletto e accarezzò quel volto.

Disceso dalla scaletta, si fermò e volse lo sguardo in alto, poi, lentamente, trasse dalla tasca un foglietto, ben piegato, lo svolse e lesse l’inizio di una lettera. “Caro Raf, amore mio, perdonami se …” Si diresse verso l’uscita del cimitero e nessuno fra i numerosi visitatori si accorse delle lacrime che gli irrigavano il viso. 

Era un pianto “catartico”, quello di Raf, reso più intenso dall’atmosfera di dormente attesa di luce, che permeava il pensiero e lo sguardo fugace che stentava a fissarsi sui filari di tombe che accompagnavano i suoi passi.

Anche il camminare lento e cadenzato; quasi svogliato e affaticato, rivelava la volontà di volersi trattenere in quel “luogo di riposo” e indugiare, soffermandosi ancora dove prima aveva sostato, deponendo i fiori che aveva acquistato in ricordo di Mary.

L’accompagnava il vago presentimento, assieme alla gioiosa certezza che presto l’avrebbe raggiunta, nella consapevolezza che la morte nulla toglie, ma solo trasforma.

Una trasformazione di cui aveva fatto esperienza nel riverbero d’amore dall’altra vita, con Mary, vissuto in maniera impetuosamente irrazionale, incontrollabile, inconcepibile, ma totalizzante fino a provocare a volte la reazione esasperante della stessa Mary che, spesso, si sottraeva ai rigurgiti d’ansia, provocati dal troppo amare.

Eros e thanatos, amore e morte, si confondevano ancora in un prodigioso “duello”, in cui nessuna delle due esperienze sembrava avere il sopravvento: apparivano esaltate in un connubio di emozioni, sublimate nella dimensione ultra-terrena, in cui tutto, anche l’amore, acquista inevitabilmente senso e compiutezza.

Mary e Raf erano traslati in un luogo e in un tempo-altro dove loro due erano l’oltre … come entrambi avrebbero desiderato … Amarsi oltre la morte, uniti da un legame che continuava ad essere oltre la fisicità; un legame d’anime, spirituale, ma tangibilmente umano, corporeo e corporale. Un amore evocativo, frammento e segmento di un passato realizzato, con i contorni e la caratteristica di una “mistagogia” che non precludeva il fascino di un’intimistica, avvertita sensualità e di una passionalità che, in Mary, sapeva inizialmente d’impaccio e di pudore, che ella superava abbandonandosi e vinta dall’intenso amore per l’amato, tra silenzi, talvolta  impenetrabili e non detti, mentre per Raf era intessuto di slanci frementi di desiderio, senza remore ma tante volte frenati, perche mantenessero la necessaria delicatezza.

Era sbocciato timidamente il loro amore; timidamente, ma in maniera non casuale. E nulla accade per caso: doveva esserci in Raf la ragione di un “perché”, non investigato nemmeno volutamente, in quanto l’amore, quello vero, non ha e non può avere un perché, sfuggendo ad ogni logica e ragione, accostandosi invece a vagheggiamenti, a fantasie che entrambi sapevano o immaginavano, già vissuti in un remoto passato e che avevano trovato dimora segreta nel cuore; in quel cuore che Raf ora sapeva denso d’amore anche per Mary, che un giorno,  improvvisamente ed inaspettatamente, gli aveva spalancato le porte.

Tutti i sentieri, che conducevano all’amore per Mary, egli aveva sondato e attraversato: la simpatia, l’infatuazione, il voler bene, l’amicizia, fino ad esperire l’innamoramento e l’amore maturo che, forse, ad una certa età, può esprimersi con la follia, quando diventa consapevole e veritiero, nel gustare l’ebbrezza delle vette.

Perché era questo che Raf provava per Mary in fatto di emozione: l’ebbrezza delle vette; e non solo per la sua bellezza, inumana e trasparentemente profusa di poetico stupore, ma anche per la sintonia che si era venuta a creare, oltre alla reciprocità di interessi e d’intenti.

Tutto questo significavano i fiori che Raf aveva portato a Mary che, con la morte consegnata all’amore o l’amore consegnato alla morte, prolungava, in maniera ancor più silenziosamente eloquente i lunghi momenti d’attesa della sua presenza, le tante parole non dette, che Raf attendeva pazientemente e che sollecitava in maniera forse irritante, ma sempre virilmente e delicatamente, inumata di tensione emotiva ed emozionale. Un amore vissuto “a morsi”, come Raf stesso tante volte soleva dire a Mary, cui ancora una volta, ha sussurrato la voglia di un bacio, “sospeso”, avvicinando le labbra alla foto che la ritrae in quell’incantevole stupore che oltrepassa gli anni; un bacio, consegnato al vento dell’eternità in cui sanno di ritrovarsi infine, per sempre. L’amore di Raf e Mary viaggia ancora nel cuore dello spirito del tempo, divenendo alito di vita.

                                                                                                                     Maria Teresa Liuzzo

 

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