lunedì, Ottobre 7, 2024
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In veglia d’armi e parole: sognare ad occhi aperti – di Wafaa El Beih

In veglia d’armi e parole: sognare ad occhi aperti

 

La presente raccolta poetica di Maria Teresa Liuzzo risulta, a partire dal titolo, un’opera pluridimensionale. Una prima dimensione nasce dalla convivenza tra sogno e realtà. Nel sogno si intuisce una nuova possibilità di essere nel mondo; la modalità del fare egoico lascia spazio al lasciare accadere, alla possibilità di vivere nella consapevolezza dell’eterno sacco cui è destinata la vita. Verso questo lasciare cadere sono protese le parole di Liuzzo che rimangono, paradossalmente, tanto attaccate alla realtà, ad un dolore che sfugge ad ogni tregua. Questa dimensione di attesa in cui pare sospesa la poesia liuzziana modifica le unità rigide di tempo e spazio: il tempo si fa flessibile, elastico, come ci fanno intuire i martoriati orologi di Dalì: in Liuzzo, passato, presente e futuro sono presenti simultaneamente, nella stessa dimensione:

Appariva un fossile il domani,

dove iniziava il male a rinverdire:

insegnami a morire!

Tra stanze immaginarie sei la luna,

io, lacrima appesa ad uno spillo.

Il presente è il passato del domani,

si spezza l’umanità come un dittongo.

Non cerco una tavola imbandita,

ma un verso per saziare cuore e palato;

l’amnesia viaggia in un diario,

aspetta che si liberi una croce

come il singhiozzo emerso in un acquario.

Il passato si identifica con le esperienze più dolorose, incombe ancora sul presente, ma una possibilità di liberazione c’è nel futuro. È la “quarta” dimensione creata da Liuzzo: uno spazio ed un tempo che possono nascere solo nella solitudine dell’attesa, dove nessun mondo collettivo può travolgere l’individualità.

Una veglia, un’attesa fra “armi” e “parole”, “guerra” e “pace”; ogni termine richiama l’altro, mentre la poesia abbraccia ambedue. Non si ha il coraggio di dire una verità così dolorosa, «senza immediatamente porgere il balsamo di una rivalsa», come sostiene Fortini. La quotidianità passata e presente della sofferenza impone un carico di verità in conflitto con chi crede alla poesia come coscienza. In attesa rimane sospeso anche il lettore, «dal momento in cui egli- secondo Mauro D’Castelli, nel suo commento al testo-,  si inoltra in quest’atmosfera, ad ogni buon conto, smette di afferrare le cose della vita come ha fatto sinora, se ne interessa in modo nuovo, si lascia imboccare dalla sonorità della sua parola, ma con sovrana condiscendenza, con quel tono di indipendenza e di autorità che crede ancora di avere; che però non lo preserverà a lungo dalla verità ultima e conturbante, dal «pulsìo della verità» (E. De Signoribus) di Maria Teresa Liuzzo».

Una seconda dimensione accoglie, quindi, sogno e poesia; pure qui, un termine rimanda all’altro, in un vortice di echi, di risonanze e di consonanze. I rimandi si moltiplicano, sono illimitati, come se fosse un effetto infinito di specchi. Un eco che promette aspettative, ma sembra, nello stesso tempo, terrificante: così è stato, per Liuzzo, il passato che non muore mai, che risuona dentro l’animo in tutta la sua immediata terribilità.

Fugge al livore il suono dall’orecchio

nel frantumarsi estremo di uno specchio.

Ogni frammento al cielo mendicava:

nella nostalgia dell’ombra la bambola giocava.

Liberati i pensieri cercavo un riscatto,

i tuoi occhi fiori di mandorlo dopo il piovasco.

Ma poesia e sogno sono essenzialmente e fondamentalmente linguaggio. Un linguaggio che parla per immagini, che vuole comunicare l’indicibile, che non muore mai. Nella poesia la parola, con il ritmo, il suono, la rima, evoca l’immagine e, con l’immagine, l’emozione; nel sogno è l’immagine, con l’emozione, che evoca la parola. La poesia di Liuzzo sembra fatta di sogni intensi:

Nella palpebra albergava il sogno,

le braccia erano tese come bretelle.

Crimini di radici sull’asfalto

bevevano la vita del centauro.

S’inceppava l’alba nella bocca nuda

e nella testa calva,

ogni accesso negando alla radura.

Qui, l’immagine poetica può essere sufficiente di per sé, ma il sogno che “nelle palpebre albergava” la rende più intelligibile, agendo in virtù della sua forza evocatrice. La vera forza dell’immagine consiste nella sua essenzialità. Quella stessa essenzialità che è propria della poesia e che rende la parola intensa, penetrante: «Le poesie non si spiegano e non si interpretano: in esse il segno non significa più: è» dice Ottavia Paz.

Il sogno è un viaggio nella profondità della psiche e anche l’atto poetico partecipa, in misura maggiore o minore, a questa avventura. «La poesia è uno degli aspetti della psiche riversati nel linguaggio» sostiene Brodskij, ed ancora la poesia è una “traduzione” dell’eterno discorso che si fa in noi. Pure il sogno è un aspetto della psiche, ed è già di per sé una traduzione. E sarà riversato alla fine in linguaggio che echeggia nel silenzio:

L’assenza brindava col silenzio

interrotto dallo squillo del telefono.

Non era la voce tua un sogno,

ma soltanto una richiesta di ‘bisogno’.

Portavano miele le api alla mia bocca:

era il segreto antico dell’amore.

Giaceva il fuoco nel cuore della febbre,

negl’occhi innamorati si spezzava.

Quando ci risvegliamo da un sogno, lamentiamo la rapidità con cui sono scomparse le immagini che hanno occupato il nostro sonno, pienamente consapevoli che di quel viaggio onirico niente o quasi resterà, salvo un’impressione momentanea; viceversa, il viaggio poetico liuzziano  nell’interiorità lascia  dei segni che permettono di ripercorrere l’emozione con cui lo si è vissuto:

La foglia è una bambola scucita,

appesa ad un ramo senza pianto.

Sono la notte, osservo Berenice:

addio mito di Orfeo e di Euridice.

L’amore è un filo d’oro, di voci bianche un coro;

dall’albero maestro, leggiadra come vela,

pende d’Aracne la tela.

Sogno ancora di te ciò che non muore.

Il linguaggio onirico si ritiene una specie di codice cifrato e simbolico, la cui interpretazione si costituisce come via maestra verso la conoscenza dell’inconscio.  Per citare le parole di Freud: «Il sogno non è l’inconscio; il sogno è la forma nella quale un pensiero scartato dal preconscio, o persino dalla coscienza della vita vigile, ha potuto rifondersi grazie alle favorevoli condizioni create dallo stato di sonno». In questi versi, torna il passato con l’immagine dello smembramento atroce del corpo di Orfeo per mano delle Menadi, ma si apre una nuova finestra sul mondo, alla ricerca dell’eterno movimento e del senso originario della parola.

Il carattere onirico, e quasi visionario della poesia liuzziana, viene, dunque, ad agire in modo decisivo sulla descrizione del reale circondandone la visione con la propria carica allusiva. Ma si risveglia mai dal sogno della vita? Quando si esce dallo stato di attesa, dalla veglia? La risposta dovrebbe prendere in considerazione le conversazioni lunghe che la poetessa fa con la natura, contemplando la perfetta sintonia tra la ciclicità della natura e i momenti dell’animo umano:

Si apre una pagina d’inverno,

rose blu intrecciano emozioni.

Il rosso guizza sopra i rovi,

di un rotondo sole ultima larva.

Mi scuoia il vostro rancore.

Schiava mi rende il dolore

come l’inverno il monte sotto la neve,

preghiera fatta poesia

acerba primavera andata via.

Questa primavera che è “nel sangue” è il tempo dell’amore, di una rinascita interiore; “L’attesa senza speranza” è una primavera “falsa”, perché la primavera è vita, sempre in movimento, dura e conduce a Dio. Una chiave di lettura di Liuzzo è sicuramente l’amore che si identifica e insieme si ricongiunge con quello mostrato nella prima pagina scritta in italiano, il Cantico delle Creature di San Francesco. Il santo di Assisi è innamorato; ammira le sore e i frati della natura con il cuore di un bambino pieno di tenerezza e di sensibilità; così innamorata è M.T. Liuzzo, un amore che aggrega insieme alle Creature del Santo, tutti i volti del Creato, la vita e la morte: «La morte è parte viva di me stessa / sostanza che abito, carne e terra».

F. Fortini, I cani del Sinai, Bari, De Donato, 1967, p. 22.

O. Paz, Lettera e contemplazione, in Passione e lettura, Milano, Garzanti, 1990, p. 52.

I. Brodskij, Farfalle, in Poesie, Milano, Adelphi, 1986, XI, P. 37.

S. Freud, Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile (1920), in L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, Vol. 9, p. 142.

Wafaa El Beih

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