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FRANCISCA AGUIRRE – Selezione a cura di Antonella Di Siena

FRANCISCA AGUIRRE

Selezione a cura di Antonella Di Siena     

Una voce importantissima nata sotto la dittatura franchista e dunque vissuta sotto la tirannia della censura, Francisca Aguirre nasce ad Alicante nel 1930 ed è tra le Autrici spagnole che denunciano la scarsa presenza delle donne nei molteplici aspetti della vita pubblica, in quegli anni ‘70 ormai raggiunti dalla modernità e tuttavia ancora lontana dal riconoscimento pieno dei diritti alle donne. Nelle sue opere che si alternano in poesia e prosa Francisca Aguirre riconsegna alle donne un primo posto nell’universo della sua narrazione. Nella trattazione di temi esistenziali a lei cari, la sua profonda sensibilità e la predilezione per i toni semplici e colloquiali, fa nascere una scrittura originale e in autentica simbiosi tra Naturale ed Essenziale. Numerosi i riconoscimenti alle sue opere: Premio Leopoldo Panero (1971); Premio Ciudad de Irun (1976); Premio Galiana (1994); Premio Esquio (1995); Premio Maria Isabel Fernandez Simal (1998); Premio della critica valenciana al conjunto de su obra (2001); Premio Alfons el Magnànim (2007); Premio International de Poesía Miguel Hernández (2010); Premio Nacional de Poesía (2011); Premio Hija predilecta de Alicante (2012) e il Premio Nacional de las Letras Españolas (2018).

                                      Antonella di Siena

 

I TRECENTO SCALINI

Tutto era calmo nella casa spenta.
Fino al giorno dopo, fino a Dio sa quando
il silenzio regnava come un idolo antico.
Non funzionavano le leggi del traffico,
quelle imprescindibili ordinanze
che bisogna rispettare per transitare nel corridoio.
È come se la notte proponesse una tregua,
come se allo spegnersi della luce, si spegnesse il pericolo.
Ascolto. Niente. Tutti tacciono unanimi.
Fissare l’oscurità è professare da morto:
gli occhi vanno dal nero che ci abita
al nero che ci avvolge.
Siamo gli spenti, gli assenti,
quelli che raccolgono tempo nei polsi;
siamo i revisori dei conti del silenzio
e quel silenzio è come un tunnel in cui avanza solo il tempo.
Non vedere, non essendo ciechi, è sprofondare nel tempo.
L’armadio, con la sua porta socchiusa, dà sulle coste della Francia.
Sento le navi che escono o entrano nel porto di Le Havre.
Vedo tre bimbe contente, a Barcellona,
perché andavano in viaggio:
basta con i bombardamenti,
non avrebbero più dovuto nascondersi sotto quella scala
che portava alle stanze di sopra
mentre sentivano, spaventate, il sibilo acuto delle bombe.
Ce ne andavamo, ce ne andavamo in Francia.
E così, arrivammo a Bañolas:
noi contentissime di vedere il lago,
papà, mamma e la nonna
trascinandosi il cuore, spingendolo verso la frontiera.
Per me, Parigi, fu a lungo un gatto.
C’era un gatto nella povera pensione in cui vivevamo,
un gatto che dormiva accanto ad una stufa.
Non vidi mai Parigi: vidi solo quel gatto.
E andammo a Le Havre per prendere una nave.
Noi con due pupazzi e una scimmietta,
papà con la sua cassa di quadri e un sogno braccato,
un sogno trasformato in incubo,
un sogno di massa
trascinato come unico bagaglio
da una immensa processione di persone sole.
Ma quella nave non giunse al suo porto:
aspettavamo, mentre mamma, per rallegrarci,
qualche giorno cantava El niño judío: «De España vengo, soy española».
Non arrivò la nave. Arrivarono gli aerei tedeschi.
Dovemmo camminare a quattro zampe nelle stanze dell’albergo,
che stava di fronte al porto.
Quell’albergo aveva un nome,
si chiamava «La Rotonde de la Gare».
Papà dipingeva, e come Modigliani,
usciva per offrire i suoi quadri alla gente. Neanche a lui li compravano.
Noi imparammo il francese in due settimane.
L’orologio de La Gare ha suonato il quarto,
papà mi dice di sollevare un po’ di più la testa,
due o tre pennellate e termina il ritratto.
Mio padre, non so bene perché, mi ritrasse da giapponesina.
Restai per sempre con il mio ventaglio,
con gli occhi leggermente obliqui e sorpresi,
in una età piuttosto indefinita
e un diadema di viole sui capelli.
Papà, andiamo al porto, andiamo al porto adesso che c’è tempo
e poi andiamocene di corsa a vedere il Bois des Hallates,
andiamo, che si è perso il tuo quadro e potrò vederlo solo con te e per sempre.
Papà, perdemmo tante cose
oltre all’infanzia e ai trecento scalini che dipingesti
non seppi mai se per dirci che bisognava salirli o scenderli.
E ora penso, dalla tua mano che mi aiutava a percorrerli,
che forse mi dicesti allora
che bisognava salirli e scenderli
e per questo li avevi dipinti
e per questo passasti giorni e giorni
a dipingere una scala interminabile,
una bella scala circondata da alberi e alberi,
piena di luce e di amore,
una scala per me,
una scala affinché potessi uscire,
vivere,
e una scala per scendere,
tacere,
e sedermi accanto a te come allora.
Mi sono alzata per chiudere la porta dell’armadio.
La mia casa è tranquilla,
nell’aria ronza tenue la lontana sirena di una nave.
Coloro che più amo dormono:
mia figlia, rimboccata nei suoi nove anni
e Felix indifeso davanti ai suoi trentotto.
Alla fine si spegne l’eco delle navi.
Torno a letto.
— Buona notte papà. A domani se Dio vuole. Buon riposo.

anto

 

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