venerdì, Settembre 20, 2024
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Dopo la Fiat, vendiamo anche Alitalia. Dietro l’operazione, il declino di un Paese e un futuro da colonia

Quando un ministro della Repubblica, in questo caso Giorgetti, arriva a esultare per la cessione a una compagnia straniera di uno dei comparti fondamentali per il prestigio e l’autonomia di un Paese, c’è da preoccuparsi. Perché è sicuramente vero, come dice lo stesso Giorgetti, che con la vendita di Alitalia e l’accordo con la tedesca Lufthansa “si chiude una storica e annosa vicenda”, e che “possiamo finalmente dire agli italiani che non ci metteremo più un Euro delle loro tasse“. Ma è anche vero che questa affermazione somiglia molto a una resa. Ai tempi del governo Berlusconi, lo stesso Silvio aveva più volte sottolineato come la presenza di una compagnia di bandiera nel settore dei trasporti aerei fosse indispensabile a garantire il prestigio del nostro Paese. Il fatto di non essere riusciti a salvare e a ristrutturare Alitalia, poi diventata Ita, non può quindi passare come un grande successo, perché non lo è. Rappresenta invece un altro passo verso la colonizzazione industriale del nostro Paese.

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L’accordo con Lufthansa, oltretutto, segue la cessione delle quote della Fiat, altro passaggio che segna la debolezza del nostro comparto industriale. Perché la forza di un Paese si misura anche nella sua capacità di sfruttare le proprie risorse autonomamente. E quando si parla di trasporto aereo, entrano in ballo molti altri fattori. Dalla possibilità di tornare a competere sui mercati internazionali al turismo, a fattori occupazionali che non possono essere sottovalutati, al probabile aumento dei costi per i voli interni. Perciò, sapere che la compagnia di bandiera è costata allo Stato 14 miliardi di Euro dal 1974 a oggi, è il segno di un’incapacità gestionale che non può renderci fieri. Andando a spulciare i numeri, possiamo vedere come fra il 1974 e il 2002 Alitalia abbia generato una perdita di 2 miliardi di Euro. In seguito si è passati all’amministrazione controllata, all’intervento del governo Berlusconi che nel 2008 bloccò il passaggio della compagnia di bandiera ad Air France, alla cordata guidata da Intesa San Paolo chiamata Operazione Fenice. Nella quale scesero in campo una ventina di imprenditori italiani, fra cui Roberto Colaninno.

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Alitalia venne scissa fra una “good company” che tenne la flotta aerea e una “bad company” che si sobbarcò 3-4 miliardi di debiti. A questa operazione ne seguirono altre, con i cambiamenti di sigle e i fallimenti, e il conseguente esborso di denaro pubblico. In mezzo a questa ridda di cambiamenti e di tentativi di salvataggio, tra prestiti, iniezioni di capitale, cassa integrazione del personale e altre voci si è arrivati a una perdita complessiva di 13-14 miliardi di Euro. Quindi è comprensibile che dalle parti del ministero si tiri un sospiro di sollievo, dopo l’accordo raggiunto fra la Ue e il nostro Governo. Ma esultare per la cessione di un altro asset così importante del patrimonio pubblico italiano sembra francamente miope. Perché la forza e la solidità di un Paese di vedono anche, e soprattutto, dalla sua capacità di gestione delle proprie ricchezze e delle proprie risorse. E quello che accade in Italia sembra invece andare nella direzione opposta. Un Paese che perde, pezzo dopo pezzo, la sua autonomia, per ridursi sempre più allo stato di colonia.

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