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“AVEVO TRE ANNI QUANDO HO CAPITO CHE AVREI FATTO L’ATTRICE”; INTERVISTA A BEATRICE FAZI

Attrice di teatro e di televisione, Beatrice Fazi è nota soprattutto per aver partecipato a ben quattro edizioni della fiction “Un medico in famiglia”, nel ruolo di Melina, la cameriera ‘pasticciona’, cugina di Cettina.

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In teatro, ha lavorato sin dall’età di quattordici anni, con maestri del calibro di Gigi Proietti.
La carriera televisiva comincia come conduttrice di un contenitore pomeridiano per bambini, denominato “Big”, in diretta su Rai Uno. Ha partecipato, successivamente, a vari programmi di intrattenimento.
La sua prima fiction è “Lui e Lei” con Vittoria Belvedere. Nel gennaio 2012, partecipa a una nuova fiction, in cui è protagonista con Lando Buzzanca, dal titolo “Il Restauratore”.
Accanto a Pierfrancesco Favino, ha recitato nel film per il cinema di Francesco Apolloni “La verità, vi prego, sull’amore”. Dal febbraio 2014, è in tournée con un’altra esilarante commedia, “Ti posso spiegare”, accanto a Michele Laginestra, e diretta da Roberto Marafante, che sarà riproposta nel dicembre 2024 presso il Teatro Sette di Roma.
Inoltre, sta andando in scena “Cinque donne del sud”, scritto e diretto da Francesca Zanni, e interpretato dall’attrice Fazi.
Uno spettacolo in cui l’attrice, nel monologo e con la versatilità che la contraddistingue, si immedesima in cinque donne, cinque personaggi, cinque caratteri e caratterizzazioni, cinque generazioni.
Beatrice Fazi, nell’anno 2015, ha pubblicato un libro, che, ad oggi, sta riscuotendo un gran successo, intitolato “Un cuore nuovo- Dal male di vivere alla gioia della fede”, edito da Piemme, in cui racconta il suo incontro con Gesù, e la conversione religiosa che l’ha salvata, da un profondo stato di disordine emotivo e alimentare, anche a causa di un aborto praticato a vent’anni. Un’autobiografia che commuove, che colpisce, e che provoca molti spunti di riflessione.

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Quando ha capito che nella vita avrebbe fatto l’attrice?

“Avevo tre anni quando ho capito che avrei fatto l’attrice. Fui folgorata dalla scena madre di uno sceneggiato televisivo: “L’amaro caso della baronessa di Carini”, dove l’attrice francese Janet Agren viene uccisa dal padre, Adolfo Celi. Dopo aver visto questa scena, la riproponevo ai miei parenti, interpretavo la baronessa di Carini: loro, piuttosto che commuoversi, ridevano. Ero buffa, alta un metro, cicciottella, e avevo un dente sovrapposto a un altro, che poi mi è stato tolto.
Questi parenti, però, subito dopo la fine del mio ‘spettacolo’, mi premiavano, dandomi dei soldi.
Spesso, faccio una battuta: ‘Mi pagavano affinché smettessi’.
Tuttavia, lo vivevo come un incoraggiamento, e ho creduto fortemente, con costanza, di fare l’attrice. Infatti, all’età di quattordici anni, ho cominciato a Salerno, nell’ambito teatrale, con il Teatro San Genesio, con Alessandro Nisivoccia e Regina Senatore, a calcare le scene, con classici come Shakespeare, Pirandello, Raffaele Viviani (…)
All’età di diciotto anni, sono andata a Roma, ho vinto una borsa di studio in una scuola diretta dal Maestro Pino Manzari, che era l’assistente di Orazio Costa Giovangigli, che ha formato tutti i grandi attori della commedia italiana: Mastroianni, Gassman, e tutti coloro che avevano frequentato l’Accademia “Silvio d’Amico” negli anni Cinquanta”.

Quali sono i ricordi più emozionanti del programma “Big”, attraverso il quale ha esordito come conduttrice televisiva?

Ho ricordi bellissimi della proficua collaborazione con Sammy Barbot: eravamo co-conduttori.
Vi era un trio comico, composto da Manuela Morabito, Rolando Ravello- oggi apprezzatissimo regista e attore cinematografico- e Renato Giordano. Come autori, vi erano Fabio Visca e Fiamma Satta.
Sentivo di avere l’istinto di condurre, avevo solamente diciotto anni, quindi non avevo molte esperienze. Nel momento in cui si accendeva la telecamera, mi sentivo a mio agio. Mi è sempre piaciuto molto parlare a braccio, avere a che fare con il pubblico (…) È importante avere una scaletta con il copione, ma la presenza di spirito, e la capacità di improvvisazione, per me sono sempre state prerogative vincenti. Ho sempre amato condurre. Attualmente, infatti, sto conducendo un programma per TV2000, che andrà in onda tutte le mattine, da ottobre: “Quel che bolle in pentola”. Si tratta di un programma di cucina.

Quanto è importante, per un attore, essere autentico nella vita reale?

Essere autentici, secondo me, è importante per tutti. A volte, bisogna mascherare le proprie emozioni, per non rendersi eccessivamente vulnerabili di fronte agli altri, ma soprattutto per non offendere gli altri quando proviamo dei pregiudizi: io cerco sempre di far sentire le persone che incontro a proprio agio, e accolte. Tuttavia, ritengo che sia importantissimo essere autentici, relativamente ai valori in cui crediamo: è straordinario essere sé stessi, e accettarsi per ciò che si è realmente. L’autenticità nelle relazioni: non bisognerebbe mai pensare di usare le persone, di volerle tradire. Non bisognerebbe mai avere paura di mostrarsi per ciò che si è, prediligendo la verità, e non l’inganno. Il tutto attraverso la capacità di sapersi mettere in relazione con l’altro, senza ferirlo. È un lavoro continuo, che va continuamente elaborato.
Per quanto riguarda un attore, l’autenticità è nell’emozione che riesce a provocare: se lui, per primo, conosce quell’emozione, cercando di analizzare il personaggio, per interpretarlo nel miglior modo possibile, e per avvicinarsi il più possibile alla sua storia, sicuramente nella scena tocca il cuore delle persone che lo stanno guardando.

Un medico in famiglia e la sua interpretazione di Melina: cosa l’ha affascinata, in particolare, di questo personaggio? Alcuni tratti caratteriali di Melina collimano con i suoi?

Sì, alcuni suoi tratti caratteriali collimano con i miei.
Melina ha le mie radici campane, ha una certa ingenuità, è ‘molesta’, nel senso di essere insistente, di essere un po’ ‘naif’, non gestisce facilmente le emozioni e le relazioni, a volte è inopportuna. Ho cercato di iperbolizzare i tratti più divertenti del mio carattere, mantenendo sempre un aspetto caricaturale, sulle ingenuità di un personaggio che ha origini modeste. Melina è una persona semplice, anch’io sono una persona semplice. Ho radici contadine, che sono quelle della famiglia di mia madre. Ho fatto una gavetta molto lunga: ho fatto la lavapiatti, la cameriera. Ho riportato, in Melina, quelle che sono state le mie esperienze.

Attualmente sta portando in tournée lo spettacolo “Cinque donne del sud”. Qual è la sensazione prevalente, quando si immedesima in cinque donne del sud, cominciando dal secondo Ottocento e dagli anni della grande emigrazione fino ai giorni nostri?

Fare questo, mi ha dato la possibilità di esplorare l’evoluzione della donna, con le sue contraddizioni, con la ricerca di una libertà, di affermare la propria dignità, il proprio diritto di essere uguale agli uomini, anche se questo aspetto è stato spesso frainteso: oggi viviamo un femminismo esacerbato, in cui le donne cercano di essere uguali agli uomini in tutti i sensi, quasi annullando la differenza esistente tra maschile e femminile, perdendo le caratteristiche bellissime dell’essere donna, come la femminilità.
In questo lavoro, vi è la possibilità di riscoprire che la vera felicità risiede nel ritornare alle origini, nel riscoprire la ricchezza insita nella capacità di una donna di custodire la vita, di difenderla, di accoglierla, di essere sostegno del proprio uomo; di riscoprire una donna capace di vivere il suo ruolo pienamente, che fa benissimo a rivendicare una dignità, che, secondo me, andrebbe riconosciuta ad ogni essere umano, a prescindere dalla provenienza, dal sesso, dalla cultura. Un essere umano ha una dignità per il solo fatto di essere venuto al mondo.
Interpretare, dunque, tutte queste donne nelle varie epoche, con una storia personale che ha come sfondo la Storia, quella vera, mi fa riflettere sul cammino della donna, sui suoi errori, e su quanto ancora abbiamo da lavorare per essere felicemente donne, ed essere riconosciute come preziose, importanti, fondamentali per la società, senza snaturarci.

Il suo libro “Un cuore nuovo- Dal male di vivere alla gioia della fede”, colpisce molto perché al suo interno è raccontata la sua verità. Si apre completamente ai lettori, raccontando momenti di profonda crisi, di fatica, di un cuore divenuto pietra, della tentazione di fare uso di stupefacenti, e del suo incontro con Gesù, che le ha donato una nuova vita, e la gioia. In che modo è possibile trasformare la sofferenza in insegnamento? Come e quando ha sentito la presenza di Dio nella sua vita?

La cosa più importante, racchiusa in questo libro è che non dobbiamo identificarci con gli errori commessi. Racconto del mio aborto, praticato a vent’anni, che ha lasciato una radice profonda di dolore dentro di me perché era iniziato quel processo vitale, quella bellissima fantasia di futuro, legato a un bambino che sarebbe dovuto nascere. Inizialmente l’avevo accolto con gioia, successivamente mi sono ritrovata da sola, rifiutata dall’uomo con cui avevo avuto quella relazione. La paura ha prevalso. Ho scelto di abortire. Al colloquio dissuasivo, che la legge 194 prevede, nessuno mi ha detto che avrei potuto dare il bambino in donazione, che avrei potuto partorire in anonimato, che avrei potuto usufruire dei Centri D’Aiuto alla Vita, e tant’altro. Ho affrontato gravi conseguenze psichiche, come l’anoressia, la bulimia, l’ansia, la paura di vivere, il desiderio di morire, l’incapacità di entrare nelle relazioni autenticamente, un conflitto con il mio corpo, con la sessualità. È stato tutto estremamente complesso. La radice del mio male di vivere, vissuto anche negli anni successivi, era proprio dentro questo errore commesso. Quando ho avuto i miei figli, ho capito la bellezza di generare la vita, e di donare la propria vita a un figlio, che è un dono straordinario, una grazia. Quando ho capito questo dolore che mi portavo dentro, ho capito che da sola non avrei potuto farcela. Ho incontrato la parola di Dio, il Sacramento della Confessione, e mi sono risollevata. Ho trasformato il dolore in una nuova possibilità, donandomi agli altri: raccontare la mia storia, per me, significa accettare l’errore, senza condannare me stessa. L’amore di Dio mi ha fatto sentire meritevole di essere amata, e capace di trasformare l’amore ricevuto in amore da poter donare, ai figli, a mio marito, alle persone che incontro. Dal male peggiore si può trarre il bene, facendo un cammino profondo. Nulla è mai perduto fino in fondo. Viene sempre data un’altra possibilità: il buio può essere illuminato.

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