giovedì, Settembre 19, 2024
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“Abbiamo agenti che scandagliano i social”. In Gran Bretagna ora è reato condividere un post

Il Direttore delle Procure inglesi lo ha detto senza mezzi termini durante una conferenza stampa: “Abbiamo agenti che scandagliano i social per poi procedere con gli arresti. Anche la condivisione del materiale sulle rivolte potrebbe essere un reato”. Parole che hanno fatto scalpore. Perché indicano un comportamento da parte delle Forze dell’Ordine che solleva inevitabili polemiche, innanzitutto sull’introduzione di quello che somiglia tanto a un reato d’opinione. Se è giusto e comprensibile che siano puniti l’incitazione alla violenza o l’organizzazione di atti criminali online, appare del tutto sproporzionato minacciare di arresto chi si limita a condividere un post in Rete. D’altronde, il Crown Prosecution Service, sezione che si occupa di reati informatici, lo ha scritto anche sul proprio sito. “Pensa prima di pubblicare!”, si legge sulla homepage. “I contenuti che incitano alla violenza o all’odio non sono solo dannosi: possono essere illegali. Il Cps prende molto sul serio la violenza online e procederà una volta superato il test legale. Ricorda a chi ti è vicino di condividere in modo responsabile o di affrontarne le conseguenze”.

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Certo non lascia tranquilli pensare che, mentre siamo sui social, ci siano agenti che controllano nello specifico tutto quello che facciamo. Persino la condivisione di un contenuto già presente online. Soprattutto, come scrivono nei loro commenti alcuni utenti di lingua inglese, non ci sono regole chiare su cosa dovrebbe essere legale e cosa invece no. Tutto viene demandato alla valutazione delle Forze dell’Ordine e alle pronunce dei singoli giudici. Inutile dire che questo apre il fianco a possibili abusi, o all’uso della censura nei confronti di chi manifesta opinioni sgradite al Governo, o alla stampa e ai poteri mainstream. Il passaggio che rischia di introdurre i “reati di opinione” è davvero fragile e sottile. Un internauta ha commentato sotto il video della conferenza stampa del Direttore delle Procure: “Pensaci prima che diventiamo come la Corea del Nord“. Un altro ha postato una vignetta in cui si vedono due uomini in cella. Il primo, un energumeno dall’aria cattiva, dice “Io ho ucciso un uomo. E tu?”. Al che il secondo, un classico Nerd mingherlino e con gli occhiali, risponde: “Io ho postato un meme sull’immigrazione”.

censura

Al di là delle ironie, il problema è serio e riguarda la libertà individuale di ciascuno di noi di avere un’opinione, che sia gradita oppure no alle autorità. Ma il problema non è nuovo. Parte dal 2003, quando il Governo di Tony Blair promulgò il Communications Act in seguito all’attentato alle torri gemelle a New York. I conservatori si sollevarono contro il provvedimento, cha a loro parere, oltre a ledere la libertà dei cittadini, rischiava di trasferire alle multinazionali enormi poteri di censura e di ridurre l’Agcom inglese a una sorta di Grande Fratello. Le misure restrittive per limitare la condivisione o la pubblicazione di contenuti sono poi diventate ancora più severe al periodo della pandemia da Covid-19. Nel 2022 due agenti della Metropolitan Police di Londra furono arrestati per essersi scambiati messaggi privati in chat sul caso di un loro collega condannato all’ergastolo per avere stuprato e ucciso Sarah Everard, una donna di 33 anni londinese che fu rapita e assassinata da un agente dopo un falso arresto. Un crimine agghiacciante che sconvolse l’Inghilterra. I commenti degli agenti arrestati erano disgustosi, ma il caso contribuì ad aprire la discussione su quali dovrebbero essere i limiti dell’intrusione dello Stato nella vita privata delle persone. Perché la chat incriminata era privata, non di pubblico dominio. E a molti parve sbagliato che quei messaggi di gusto orribile venissero resi pubblici, causando imbarazzo e dolore a tutte le persone coinvolte. Compresi i parenti della vittima.

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