venerdì, Settembre 20, 2024
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MARIANO CORENO: ”IL SALE E IL MIELE DELLA VITA” – PREFAZIONE DI MARIA TERESA LIUZZO

MARIANO CORENO: ”IL SALE E IL MIELE DELLA VITA”

PREFAZIONE DI MARIA TERESA LIUZZO

Nelle numerose strofe nelle quali è ripartita ”IL SALE E IL MIELE DELLA VITA” è la vita stessa che parla, sia sub specie di natura sia attraverso l’uomo; opera del poeta Mariano Coreno, già noto e apprezzato dalla critica e dai lettori per avere pubblicato in Italia e in Australia numerose raccolte poetiche, di cui ricordiamo Yellow Sun, La lunga traversata, Stelle passanti, Ceneri nel bosco, Sotto le stelle australiane, Il carrubo e l’oceano, Un albero per ombrello. Il sentimento, il pensiero, la fede, dono che diventa devozione, Dio, il destino dell’uomo, anche a livello di entelechia, ma anche la storia e la cronaca, della propria vita e dell’umanità, attraversano le pagine. V’è una sorta di rapporto empatico tra l’uomo, il poeta e la natura, che è teatro e sfondo, ma anche un fattore attivo e determinante, nell’uomo e nel poeta. E’ dunque la natura spesso a emergere, viva e palpitante, benigna (quando siamo lontano dalla natura matrigna e indifferente di Leopardi!) e foriera di nuova vita e di nuove linfe, non soltanto nelle visioni amene e gratificanti, ma anche quando si manifesta nei suoi aspetti che inducono al timore e al tremore, per usare, forse impropriamente, un’espressione che è il titolo di una fondamentale opera di Soren Kierkegaard. Il poeta, che in un verso ”Oh, natura, mio amore!”, le ha dichiarato il suo amore, la sente come madre, come sorella, come figlia e come amante. Se non immerso in essa, se non identificandosi, il poeta e l’uomo non avrebbero voce per rivolgersi ad essa, per colloquiare, quasi sempre tacitamente, non potrebbero ascoltarne le infinite voci e deliziarsi di esse, e non conoscerebbero il suono e il canto, della loro stessa voce, canto e suono interiori, del cuore e dell’anima. E come la stessa poesia potrebbe avere voce, come oscillare tra commozione, dolore e canto, se il poeta non ascoltasse la natura medesima, se non udisse e non si estasiasse nell’ascolto delle mille voci e dei molteplici canti del regno animale, degli uccelli, creature del cielo, che volteggiano garruli, in lunghe file e a stormi, a tracciare ghirigori e traiettorie incrociate che s’immergono nel fogliame, tra i rami degli alberi grandi e piccoli o nelle siepi, per costruirsi il nido? Il poeta, che ha trascorso l’adolescenza nel paese natale, Coreno Ausonio, ha somatizzato la natura del luogo, la campagna, gli alberi secolari, ma anche i prati; ha interiorizzato e conservato nell’anima le visioni, le albe luminose e trasognate, i tramonti rosseggianti, i crepuscoli che precedono la sera (e che precedono l’alba), il brulichio nella giovane notte, di grilli e cicale, e l’aria ferma, in una immobilità che attende il sorgere della luce e l’accensione di miliardi di stelle. Ancora risuona il canto e il suono dei ruscelli, a primavera, e la pioggia di marzo e quella autunnale, e quella d’inverno, che il poeta cerca di ritrovare in Australia, ma nella traslazione delle stagioni, che non sono le stesse della sua adolescenza, e nel suo paese, almeno a livello emozionale e di rigenerazione: in quel fervore che fa attraversare da linfe vitali, come se fossero, e lo sono!, della stessa natura, quando divengono paesaggio interiore. Ed è una dinamica, che cerca di recuperare, proustianamente, il tempo perduto. Ora, nella nuova ”PATRIA”, è l’immissione di una natura che pur gratifica e ristora e meraviglia, per una grandiosità che il poeta ha conosciuto soltanto nel Novissimo Mondo, ma che non gli impedisce di esclamare: ”Ritornare / al paese mio / Lì solo esiste Dio”, con versi che non sono soltanto atto di fede, ma ritorno alle radici, cancellazione dello svellimento, poiché il poeta vede se stesso come l’albero sradicato (in quanto emigrante, e migratore, come egli stesso si definisce; come gli uccelli, che cercano i climi miti e assolati, ma anche nel senso del ricorrente ritorno in patria, sia pure a livello ottativo o di sogno), ”L’albero, se sradicato / e poi trapiantato, / pian piano si secca / e muore / come l’emigrante / che lascia il suo paese…”, ma egli a differenza dell’albero che non può camminare, può spostarsi e viaggiare nel tempo, per ritrovare se stesso ed avere coscienza di sé e del proprio vivere e, soprattutto, come gli uccelli tornano al nido, egli può tornare a casa. Il suo sguardo non è solo focalizzazione di visioni, nell’unica sfera del tempo, che è passato, presente e futuro, simultaneamente, anche se un suo verso recita che il presente è già divenuto passato. Ed è una sfera spazio-temporale nella quale le immagini da visive e concrete, nel presente, divengono astratte nel passato e proiettate nel futuro, ma per avere quasi subito una dimensione quasi materiale e diventano cose, come gli alberi, i prati, la terra umida e feconda oppure secca e incolta, ”margia”, per usare un termine dialettale, che si attanaglia all’uomo di origine contadina, che conosce la fatica del dissodare, anche per esperienza indiretta, con la zappa e con l’aratro tirato dai buoi e non ancora sostituiti dai moderni trattori.

Il miele e il sale della vita, abbiamo scritto, abbiamo sintetizzato nel titolo, nel senso che l’uno e l’altro, non separatamente, danno valore alla vita, edificano, fortificano, attribuiscono il giusto sapore alla gioia e, saggiamente, la temperano, perché non si dimentichi, che nulla è duraturo e che spesso, alla propria felicità fa da contraltare il dolore degli altri che, altrettanto spesso o non conosciamo o siamo spinti a dimenticare. Le carature che in quest’opera emergono decisamente, sono la delicatezza e la sensibilità dell’animo del poeta, le sue emozioni e commozioni, la sua capacità di cogliere, non solo fra gli uomini, ma anche fra gli animali atteggiamenti e di tenerezza, come negli uccelli fra i rami, insieme con l’atteggiamento estatico di fronte a visioni amene. E, poi, la gioia nel cogliere la luce dell’alba, nel godere delle lievi brezze, o il crogiolarsi al sole, ma anche l’emozione, nei sussulti che causa il tempo inclemente, che impaurisce ma dimostra la vitalità della natura, che è anche dell’uomo. Si è parlato di esilio, di nostalgia, quasi saudade, ma la patria di adozione è la terra del suo amore, dei suoi affetti, dei suoi legami più intensi, una terra dove sono nati e si sono rinsaldati gli affetti che più contano, la terra dell’innamoramento (Rosetta / mentre taci / sulle tue labbra / scrivo / parole di baci (… ) nei suoi occhi lucenti / velati d’amore / che mi fanno ballare / le vene e il cuore) e delle passioni , del desiderio, l’amore reciproco di coppia, che ha visto il passare delle stagioni, ma anche l’arricchimento di rapporti affettivi, che sono poi il sale, ma anche il miele, della vita, come si è già detto. E’ la terra delle passioni, del desiderio, dell’amata alla quale, quando ella si china egli guarda con desiderio il seno; è l’esperienza completa dell’amore, carnale e spirituale. Emergono, poi, nell’opera, gli affetti familiari, della famiglia di origine: i nonni, il padre, la madre, figure indelebili, delle quali oltre all’immagine, il poeta eredita l’anima. E sono gli ascendenti a rinfocolare affetti, in un contesto di intimità familiare, che è semplicità e candore, anche nella riemersione di scene, che suggeriscono tenerezza, come la nonna che cuce al lume di una candela, mentre il nonno beve vino rosso, dimentico degli affanni della vita, ma nel calore della sposa che gli sta accanto. L’amore serpeggia sempre nei versi, e si rivela nel suo cuore, all’interno della famiglia e nel cuore dei propri cari e, in virtù di esso, il poeta dimentica l’esilio e gode del ritorno ed apprezza la vita e il mondo e l’umanità e, giunto al limite di un considerevole tratto della sua vita, può affermare, in cuor suo, di non essere vissuto invano e di avere, soprattutto, seminato e raccolto affetti. E tutto diventa parola poetica in Mariano Coreno, quella stessa che ci fa concludere il nostro excursus con i versi di una sua lirica, dedicati alla poesia: ”… la porterò con me / anche domani / quando inevitabilmente / non potrò più / aprire o chiudere / gli occhi / per salutare il sole.”

Maria Teresa Liuzzo – direttore rivista di cultura internazionale Le MUSE – (ITALIA)

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