A soli due anni, Giacomo conosce poche parole: “sì”, “no”, “mamma”, “pappa”, “apri”, “chiudi”. Quest’ultime le ha imparate a Rebibbia, il carcere di Roma dove è recluso da dieci mesi insieme alla sua mamma, una giovane donna italiana di trent’anni, detenuta per reati minori. Anche il papà di Giacomo, come il bambino, si trova dietro le sbarre dello stesso carcere. Per il piccolo, quindi, non c’è altra scelta se non quella di crescere tra le mura della casa circondariale.
La storia del piccolo Giacomo
Giacomo è una vittima della burocrazia. Il suo caso è ancora sotto valutazione e, nel frattempo, il bambino sta soffrendo le conseguenze di questa triste situazione. Ha sviluppato un ritardo nello sviluppo, non cammina, è sovrappeso e porta ancora il pannolino. È l’unico bambino all’interno della struttura e trascorre le giornate davanti alla tv, guardando cartoni animati, senza avere nessuno con cui giocare o interagire.
L’unica luce nella vita di Giacomo è rappresentata dalle volontarie dell’associazione “A Roma insieme – Leda Colombini”. Ogni giorno, queste donne lo portano in un nido esterno alla casa circondariale, cercando di offrirgli qualche ora di normalità. Una delle volontarie racconta a Repubblica: “Lui è contentissimo di andare al nido. Quando in auto aspettiamo che le guardie aprano il cancello, lui comincia a dire: ‘Apri, apri, apri’. Giacomo, sei contento di andare a scuola? ‘Sì’. Di vedere la tua maestra? ‘Sì’. E i tuoi compagni? ‘Sì’“.