venerdì, Settembre 27, 2024
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56 anni nel braccio della morte da innocente: assolto dopo una vita in carcere

di Paolo Cagnoni

Una vicenda quasi incredibile e forse senza precedenti, ma piena di significati. A partire dall’annosa discussione sulla pena di morte come strumento di punizione per i colpevoli di crimini anche efferati, a una più filosofica riflessione su come un giudizio affrettato o estorto (come pare in questo caso) possa rovinare irrimediabilmente la vita di un essere umano.

Iwao Hakamada, un ex pugile giapponese oggi 88enne, ha trascorso 56 anni nel braccio della morte per un crimine che non ha mai commesso. La sua è una storia di ingiustizia che sembra provenire da un passato oscuro, ma che ha trovato la sua conclusione solo di recente, con una sentenza della Corte di Shizuoka che lo ha scagionato da ogni accusa.

Prove false: un verdetto storico

Hakamada, condannato a morte nel 1968 per l’omicidio di quattro persone avvenuto nel 1966, ha atteso oltre mezzo secolo, sapendo che ogni giorno avrebbe potuto essere l’ultimo. Il suo caso rappresenta uno dei pochi esempi di assoluzione post-condanna a morte in Giappone: è il quinto dal dopoguerra. Il tribunale ha dichiarato che contro di lui erano state fabbricate prove, portando alla sua ingiusta condanna. Il giudice Koshi Kunii ha sottolineato come tre prove chiave fossero state create ad arte, rendendo impossibile attribuire a Hakamada la responsabilità degli omicidi di cui era stato accusato.

 

La sentenza ha messo in luce anche il lato oscuro del sistema giudiziario giapponese. Gli interrogatori che portarono alla confessione dell’ex pugile, secondo il giudice, furono “disumani“, volti a infliggergli “dolore fisico e mentale” per costringerlo a confessare un crimine che non aveva commesso. Questo metodo di coercizione, purtroppo, ha segnato la vita dell’ex pugile per sempre.

L’incubo del braccio della morte

Per 56 anni, Iwao Hakamada ha vissuto con la paura costante dell’esecuzione. Nonostante la sua età avanzata e il deterioramento della salute, non è stato graziato finché la verità non è emersa. Nel 2014, un tribunale aveva già stabilito la necessità di un nuovo processo, ma ci sono voluti ulteriori nove anni perché si arrivasse alla definitiva assoluzione.

La prigionia di Hakamada non si è limitata alla costrizione fisica del carcere: la sua condizione mentale è stata segnata da decenni di attesa, isolamento e ingiustizia. Quando è stato filmato dai media giapponesi dopo la sentenza, appariva debole e fragile, l’ombra dell’uomo che era un tempo. È stato solo grazie alla determinazione della sua famiglia, in particolare della sorella Hideko, che ha presentato l’appello nel 2008, se il caso è stato riaperto.

Un simbolo dell’ingiustizia giudiziaria

La vicenda di Iwao Hakamada solleva interrogativi profondi sul sistema giuridico giapponese e sulla pena di morte. La lentezza delle procedure, la pressione degli interrogatori e l’uso di prove false hanno causato un dramma umano devastante. L’ex pugile ha vissuto 56 anni nell’attesa di una giustizia che sembrava non arrivare mai.

Anche se ora è stato scagionato, nessuno potrà restituirgli il tempo perduto o curare le ferite psicologiche profonde causate da decenni di ingiusta condanna. Iwao Hakamada, con la sua immagine fragile e sofferente, è diventato oggi – suo malgrado – il simbolo dei danni che può provocare una giustizia che non fa giustizia.

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